«Non ce la faccio più» disse il mare esausto, il mare
che ingoiava i morti che lo
attraversavano, quelli che scappavano dalle terre morte perché assassinate da terrestri morti mentre erano
in vita; ma era lui che ad ogni ribaltamento dei legni si prendeva le colpe di
ogni respiro spezzato e l'onere di
seppellirli tutti, in un solitario rito funebre. Contava sulla profondità e
vastità dei suoi abissi, per poter accogliere tutti.
E siccome era mare, non poteva piangere, né farsi sentire,
perché nessuno si sarebbe accorto di alcuna goccia triste persa dentro miliardi
di gocce; nessuno lo avrebbe sentito mai singhiozzare dentro le sue onde,
perché il suono delle onde copre quello del pianto.
Per piangere non poteva chiedere aiuto ai pesci, perché loro
erano muti.
Nè a delfini e balene, perché il loro verso era troppo simile
alla vita. Non somigliava affatto ad un dolore.
Nè se la sentiva di chiedere aiuto alle sirene, perché non era
sicuro che esistessero.
Nè al fischio del vento, che si mischia sempre a tutto il resto.
Né ai gabbiani perché il loro non era un suono aggraziato.
Così anche se era tanto grande, il mare si sentiva piccolo
piccolo, solo e pieno di morte dentro.
Cosa poteva fare? Come faceva a piangere? Come imparare? Si
concentrò su quello in cui riusciva.
Nel suo contatto con la terra, le sue braccia portavano e
levavano, levavano e portavano. Questo
sanno fare le onde. Ma tale movimento non poteva essere considerato in alcun
modo un pianto. Non c’ era nessun segno nuovo che appariva all’ improvviso,
come le gocce fuori nei volti di chi non riesce a tenersi tutto dentro.
Questo mettere e togliere era soltanto il suo lavoro, il suo respiro, la sua
peculiare eterna routine. E dunque? Si concentrò ancora.
Nulla cambiava. Voleva ma non riusciva a piangere, e il magone
che sentiva dentro era molto più grande di lui. Si sentiva spezzare e
soffocare. Doveva imparare a piangere. Almeno quello. Sapeva che gli avrebbe
fatto bene. Che poi se in futuro ci fosse stata la necessità di contenere altri morti li avrebbe comunque
seppelliti e accolti, perché questo era chiamato a fare, ma doveva liberarsi da quel
magone, non esserne schiacciato. Doveva imparare ad esprimere questo dispiacere abissale.
Doveva fare apparire il
dolore.
E allora, all’ ennesimo ribaltamento di legno, decise di non
mandare giù tutto. Di non prendersi e perdersi dentro una tragedia che non era
la sua. Di non ingoiarli tutti quei corpi piccoli e grandi, per non allargare
il magone oltre misura.
«Questo è tutto tuo, io non c’
entro nulla» diceva alla terra mentre
imparava a piangere e a liberarsi un poco.
In questo andare e venire delle sue braccia nel contatto con la costa,
in questo togliere e mettere sassi, vetri, alghe, pesci, legni, apparvero le sue lacrime.
Non erano gocce, né suoni, né lamenti. Né singhiozzi, né versi,
né fischi, né canti lontani e misteriosi.
Erano corpi ammutoliti e senza vita, che il mare alla terra
lasciava e restituiva suo malgrado. Perché avrebbe voluto proteggerli tutti con
la sicurezza di non lasciarli alla terra per farli morire ancora e ancora, in
chissà quanti modi diversi.
Però il mare piangeva e stava meglio.
La terra raccoglieva, piangeva e stava peggio.
Ma il mare proprio non poteva farci nulla. Ormai sapeva che
queste lacrime erano necessarie.
Quando si accorse di un altro grappolo di morti, quando vide per
l’ennesima volta che una donna e i suoi due figli avevano perso il loro
respiro, per istinto li volle portare con sé, al sicuro da tutto, nel suo
confortevole abisso, ma così facendo avrebbe rinunciato a piangere. E proprio
non poteva più.
Ne uscì la lacrima perfetta, che la terra piangendo moltiplico
per sei miliardi.
Matteo Frasca