domenica 6 settembre 2015

Non ce la faccio più o del mare che impara a piangere

«Non ce la faccio più» disse il mare esausto, il mare che ingoiava i morti  che lo attraversavano, quelli che scappavano dalle terre morte perché  assassinate da terrestri morti mentre erano in vita; ma era lui che ad ogni ribaltamento dei legni si prendeva le colpe di ogni  respiro spezzato e l'onere di seppellirli tutti, in un solitario rito funebre. Contava sulla profondità e vastità dei suoi abissi, per poter accogliere tutti.
E siccome era mare, non poteva piangere, né farsi sentire, perché nessuno si sarebbe accorto di alcuna goccia triste persa dentro miliardi di gocce; nessuno lo avrebbe sentito mai singhiozzare dentro le sue onde, perché il suono delle onde copre quello del pianto.
Per piangere non poteva chiedere aiuto ai pesci, perché loro erano muti.
Nè a delfini e balene, perché il loro verso era troppo simile alla vita. Non somigliava affatto ad un dolore.
Nè se la sentiva di chiedere aiuto alle sirene, perché non era sicuro che esistessero.
Nè al fischio del vento, che si mischia sempre a tutto il resto.
Né ai gabbiani perché il loro non era un suono aggraziato.
Così anche se era tanto grande, il mare si sentiva piccolo piccolo, solo e pieno di morte dentro.
Cosa poteva fare? Come faceva a piangere? Come imparare? Si concentrò su quello in cui riusciva.
Nel suo contatto con la terra, le sue braccia portavano e levavano,  levavano e portavano. Questo sanno fare le onde. Ma tale movimento non poteva essere considerato in alcun modo un pianto. Non c’ era nessun segno nuovo che appariva all’ improvviso, come le gocce  fuori nei volti di chi non riesce a tenersi tutto dentro. Questo mettere e togliere era soltanto il suo lavoro, il suo respiro, la sua peculiare eterna routine. E dunque? Si concentrò ancora.
Nulla cambiava. Voleva ma non riusciva a piangere, e il magone che sentiva dentro era molto più grande di lui. Si sentiva spezzare e soffocare. Doveva imparare a piangere. Almeno quello. Sapeva che gli avrebbe fatto bene. Che  poi  se in futuro ci fosse stata la necessità  di contenere altri morti li avrebbe comunque seppelliti e accolti, perché questo era chiamato a fare, ma doveva liberarsi da quel magone, non esserne schiacciato. Doveva imparare ad esprimere questo dispiacere abissale.
 Doveva fare apparire il dolore.
E allora, all’ ennesimo ribaltamento di legno, decise di non mandare giù tutto. Di non prendersi e perdersi dentro una tragedia che non era la sua. Di non ingoiarli tutti quei corpi piccoli e grandi, per non allargare il magone oltre misura.
«Questo è tutto tuo, io non c’ entro nulla» diceva alla terra mentre imparava a piangere e a liberarsi un poco.
In questo andare e venire delle sue braccia nel contatto con la costa, in questo togliere e mettere sassi, vetri, alghe, pesci, legni,  apparvero le sue lacrime.
Non erano gocce, né suoni, né lamenti. Né singhiozzi, né versi, né fischi, né canti lontani e misteriosi.
Erano corpi ammutoliti e senza vita, che il mare alla terra lasciava e restituiva suo malgrado. Perché avrebbe voluto proteggerli tutti con la sicurezza di non lasciarli alla terra per farli morire ancora e ancora, in chissà quanti modi diversi.  
Però il mare piangeva e stava meglio.
La terra raccoglieva, piangeva e stava peggio.
Ma il mare proprio non poteva farci nulla. Ormai sapeva che queste lacrime erano necessarie.
Quando si accorse di un altro grappolo di morti, quando vide per l’ennesima volta che una donna e i suoi due figli avevano perso il loro respiro, per istinto li volle portare con sé, al sicuro da tutto, nel suo confortevole abisso, ma così facendo avrebbe rinunciato a piangere. E proprio non poteva più.

Ne uscì la lacrima perfetta, che la terra piangendo moltiplico per sei miliardi.

Matteo Frasca

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