Non
ci arrischiamo molto quando affermiamo che i bambini non sono conchiglie,
stoffe pregiate, francobolli per collezionisti, facce da casting. Non sono pezzi rari da esibire, né perle da
mostrare. Questi bambini e bambine non esistono. Da nessuna parte. Se non nelle
ossessioni di cartapesta degli adulti, che spesso devono fare i conti con una
solitudine o frustrazione profonda per tutto quello che hanno perso e non
credono più di ritrovare nel mondo che percorrono ogni giorno.
Se dell’infanzia
non si racconta il suo contesto, se dei bambini non si seguono e si inseguono
le loro storie dentro gli orizzonti in cui nascono; se non si fanno mille passi
indietro perché loro possano farne qualcuno in avanti e conquistare la loro
parola, la loro verità possiible, il loro gesto scelto e determinato, lo spazio
che nello stesso tempo adattano e modificano; ecco, se non si prova a
raccontare questo, muore qualsiasi documento
e documentario, muore l’infanzia che si autorappresenta, muore ogni tentativo
mitologico e rischioso di dare voce ad un punto di vista. Il risultato è una
triste megalomania che si spaccia per poetica, che nulla trattiene di quel che
voleva e doveva promettere.
“I
bambini sanno” di Walter Veltroni è irritante per qualsiasi educatore. Però è
stato saggio vederlo.
Cerco
di essere critico in tutte quelle oscenità trasmesse sull’ illuminare il lato
freak che per natura l’infanzia possiede, in quanto bambine e bambini sono
esseri mutanti, che non ci saranno più e che contengono un elemento mostruoso,
più che (oltre che) meraviglioso. Ma proprio per questo ogni buon autore
(scrittore, regista, artista che sia) che racconti l’infanzia ricerca sempre tale
inquietudine, sospendendo lo sguardo, inserendo il mistero dell’ infanzia
dentro la comunità, dentro il mondo e la Storia che nutre e di cui è nutrita, dentro
il paesaggio (umano e ambientale) nel quale l’infanzia si muove, domanda, si interroga,
risponde, desidera, è costretta a vivere, cerca di cavarsela. Potendosi forse tramutare
un giorno chissà, in un’adultità illuminata.
Ne
“I bambini sanno” tutto questo non c’è : l’intera operazione, a partire dall‘
idea di un cast da selezionare, ha
minato profondamente questa possibile
vocazione autoriale, questo privilegio ed enorme responsabilità che un uomo di cultura come Veltroni, aveva
tra le mani. E il risultato – mai me lo
sarei aspettato con così tanto vigore– somiglia a quelle oscenità televisive
che, immaginiamo, lo stesso Veltroni di frequente possa aver criticato, solo
che invece del canto, del ballo, della candid camera, è la parola bambina ad
essere banalizzata dentro una cornice finta, voluta dall’ adulto, voluta solo
dal regista e dall’ autore.
“I
bambini sanno” non è un documentario. Non è un film. Non è un’ opera di
finzione. Non è sfortunatamente neanche un plagio di esempi eccellenti di
audiovisivi che lo hanno preceduto e a cui vorrebbe richiamarsi. Mi viene in mente quel gioiellino autoriale
che andava in onda nel 2007, su Raitre dal titolo “Non è mai troppo presto” di
Silvia Pizzetti, dove esisteva un contesto (lo studio televisivo arrangiato
nelle scuole italiane), un rito, un gruppo di bambine e bambini, un ritrovarsi
insieme all’ adulto, sviscerando lo scibile umano con metodo e leggerezza, come
raccomandava Cesare Zavattini, come hanno fatto con ispirazioni autentiche e
diverse Luigi Comencini, Pier Paolo Pasolini, Vittorio De Seta. E tutti questi autori, nelle loro rispettive
esperienze, facevano in modo che bambine e bambini, davvero sapessero, pur
sapendo di non sapere, ma esercitando a pieno il loro diritto di parola, la
loro parresia, ossia quell’abitudine in voga nella democrazia ateniese del
parlare in pubblico parlando di tutto, facendo parlare tutti i cittadini.
“I bambini sanno” si discosta anche da quella
finestra ugualmente irritante in Di Martedì, dove bambine e bambini rispondono
a questioni politiche ed economiche, facendo ridere i politici in studio e gli
spettatori di turno, prima che il conduttore in modo educato o ironico puntualmente
dica: “Bene. Occupiamoci ora della realtà”.
“I
bambini sanno” è un falso. Un falso documentario, un falso film, una falsa
inchiesta sull’ infanzia. “I bambini
sanno” è un Frankeistein, un mostro a più teste senza vita. Succhiata dalla
voce insistente dell’adulto che fa domande le quali quasi sempre contengono già
le risposte che bambine e bambini si limitano a confermare, a completare. Non
vi è traccia di racconto e di rispetto per il racconto autentico altrui.
Nessuna. Se non quella che con le unghie
e con i denti gli intervistati con coraggio cercano di formulare, in quei pochi
tentativi di parola bambina che spicca il volo, per poi riatterrare
drammaticamente sul comodo tappeto drammaturgico (si fa per dire) confezionato
dall’autore. E questo fa rabbia.
Molte storie perlomeno interessanti si celano
dietro i volti e la narrazione compressa di bambine e bambini che incontriamo,
nonostante un evidente stato di stress che trapela dal sudore sopra le labbra
degli intervistati. È una certezza il
fatto che in tali condizioni non vi possa essere un’ accoglienza alla libertà
della parola di farsi racconto naturale. Con una sensibilità diversa, sarebbe
bastato seguire, documentare, attendere anche una sola delle storie che come
una vera e propria sfilata, descrivono e illustrano la collezione dell’ autore.
In
due momenti però questa insofferenza si acuisce.
Per
circa due minuti, in una sola sequenza, senza che il ragazzino torni in altri
momenti del film, un piccolo profugo sbarcato a Lampedusa, risponde all’unica
domanda che Veltroni gli rivolge (almeno nel montato condiviso con noi): “Come
è stato il viaggio?”. Il bambino risponde, ma si capisce che è a disagio, che
non vuole… proprio non vuole. E nessuno di noi al suo posto. Ma quello che
vediamo e sentiamo è proprio questo ossimoro. Questa orribile forzatura, questo
dialogo mancato.
L’altra constatazione è rispetto ad un ‘etica
sottintesa che non ci sentiamo di condividere.
Tra i vari capitoli in cui sono inserite le conversazioni di Veltroni con
Veltroni (tramite gli infantes), ve ne è uno dedicato all’ omosessualità dove
bambine e bambini sono chiamati a rispondere su questa annosa questione, se per
loro rappresenti un problema o un fatto naturale. Molti rispondono come fossero
“gente”, da italiani medi, da quel che “conviene” rispondere pubblicamente, di
fronte all’ italiano medio che te lo chiede, davanti ad una telecamera italiana
media. Solo una bambina, fuori dal coro,
prova a raccontare il suo trovarsi a proprio agio con le sue due mamme, che da
sempre è così, che per lei questa è la realtà e non l’imbarazzo dei suoi
compagni.
Vengo
preso da amarezza e sconforto. Nel 2015, in mezzo ad un fermento culturale così
acceso e denso sull’ educazione di genere, possibile che un intellettuale, un ex sindaco che ha incontrato
e conosciuto la sua comunità, abbia dovuto trattare e far trattare l’ omosessualità ancora come una questione a parte, fuori dall’ idea di famiglia e fuori dall’
idea di amore, (ossia i capitoli precedenti)? Poi mi rispondo che in fondo è la
stessa infanzia ad essere stata considerata in questo modo dal suo autore,
fuori dal mondo, fuori dai mondi possibili e impossibili… solo dentro Veltroni.
Matteo Frasca
Mi piace questo intervento di Matteo Frasca; se non altro per la chiarezza espositiva "ma anche" (veltronismo involontario) perché la critica non è a Walter Veltroni ma ad un certo modo d'intendere, di documentare e di rappresentare la verità da parte di gran parte di operatori e mediatori culturali, educativi, politici, intellettuali e pseudo-intellettuali.
RispondiEliminaQuando si parla e si scrive di bambini, si parla e si scrive di verità e, se dietro alla verità si intravedono "altre verità", queste ai fini veritativi, sono considerate menzogne, nascondenti, doppi fini, ecc.
Un operazione culturale e/o artistica, pedagogica, educativa, ecc. che presenta molteplici "verità" risulta oggettivamente confusa, senza identità, senza verità; la fruizione di opera che di tali caratteristiche, (come sembra essere "I bambini sanno" di Veltroni) può avere esiti deleteri proprio per quei bambini che sono il tesoro, il futuro e la speranza di un'umanità calpestata dagli eventi, obnubilata dai media e dimenticata dei giorni nostri.
C'è un aspetto positivo nell'opera di Veltroni: "l'effetto elastico"; ovvero il merito di aver risvegliato le coscienze sopite di quanti lavorano concretamente per un mondo migliore e che trovano nell'educazione la strada maestra della speranza per un futuro umanamente sostenibile.