lunedì 4 maggio 2015

La conoscenza perduta dei bambini

Non ci arrischiamo molto quando affermiamo che i bambini non sono conchiglie, stoffe pregiate, francobolli per collezionisti, facce da casting.  Non sono pezzi rari da esibire, né perle da mostrare. Questi bambini e bambine non esistono. Da nessuna parte. Se non nelle ossessioni di cartapesta degli adulti, che spesso devono fare i conti con una solitudine o frustrazione profonda per tutto quello che hanno perso e non credono più di ritrovare nel mondo che percorrono ogni giorno.
Se dell’infanzia non si racconta il suo contesto, se dei bambini non si seguono e si inseguono le loro storie dentro gli orizzonti in cui nascono; se non si fanno mille passi indietro perché loro possano farne qualcuno in avanti e conquistare la loro parola, la loro verità possiible, il loro gesto scelto e determinato, lo spazio che  nello stesso tempo adattano  e modificano; ecco, se non si prova a raccontare questo, muore  qualsiasi documento e documentario, muore l’infanzia che si autorappresenta, muore ogni tentativo mitologico e rischioso di dare voce ad un punto di vista. Il risultato è una triste megalomania che si spaccia per poetica, che nulla trattiene di quel che voleva e doveva promettere. 
“I bambini sanno” di Walter Veltroni è irritante per qualsiasi educatore. Però è stato saggio vederlo.
Cerco di essere critico in tutte quelle oscenità trasmesse sull’ illuminare il lato freak che per natura l’infanzia possiede, in quanto bambine e bambini sono esseri mutanti, che non ci saranno più e che contengono un elemento mostruoso, più che (oltre che) meraviglioso. Ma proprio per questo ogni buon autore (scrittore, regista, artista che sia) che racconti l’infanzia ricerca sempre tale inquietudine, sospendendo lo sguardo, inserendo il mistero dell’ infanzia dentro la comunità, dentro il mondo e la Storia che nutre e di cui è nutrita, dentro il paesaggio (umano e ambientale) nel quale l’infanzia si muove, domanda, si interroga, risponde, desidera, è costretta a vivere,  cerca di cavarsela. Potendosi forse tramutare un giorno chissà, in un’adultità illuminata.
Ne “I bambini sanno” tutto questo non c’è : l’intera operazione, a partire dall‘ idea  di un cast da selezionare, ha minato profondamente  questa possibile vocazione autoriale, questo privilegio ed enorme responsabilità  che un uomo di cultura come Veltroni, aveva tra le mani.  E il risultato – mai me lo sarei aspettato con così tanto vigore– somiglia a quelle oscenità televisive che, immaginiamo, lo stesso Veltroni di frequente possa aver criticato, solo che invece del canto, del ballo, della candid camera, è la parola bambina ad essere banalizzata dentro una cornice finta, voluta dall’ adulto, voluta solo dal regista e dall’ autore.
“I bambini sanno” non è un documentario. Non è un film. Non è un’ opera di finzione. Non è sfortunatamente neanche un plagio di esempi eccellenti di audiovisivi che lo hanno preceduto e a cui vorrebbe richiamarsi.  Mi viene in mente quel gioiellino autoriale che andava in onda nel 2007, su Raitre dal titolo “Non è mai troppo presto” di Silvia Pizzetti, dove esisteva un contesto (lo studio televisivo arrangiato nelle scuole italiane), un rito, un gruppo di bambine e bambini, un ritrovarsi insieme all’ adulto, sviscerando lo scibile umano con metodo e leggerezza, come raccomandava Cesare Zavattini, come hanno fatto con ispirazioni autentiche e diverse Luigi Comencini, Pier Paolo Pasolini, Vittorio De Seta.  E tutti questi autori, nelle loro rispettive esperienze, facevano in modo che bambine e bambini, davvero sapessero, pur sapendo di non sapere, ma esercitando a pieno il loro diritto di parola, la loro parresia, ossia quell’abitudine in voga nella democrazia ateniese del parlare in pubblico parlando di tutto, facendo parlare tutti i cittadini.
 “I bambini sanno” si discosta anche da quella finestra ugualmente irritante in Di Martedì, dove bambine e bambini rispondono a questioni politiche ed economiche, facendo ridere i politici in studio e gli spettatori di turno, prima che il conduttore in modo educato o ironico puntualmente dica: “Bene. Occupiamoci ora della realtà”.
“I bambini sanno” è un falso. Un falso documentario, un falso film, una falsa inchiesta sull’ infanzia.  “I bambini sanno” è un Frankeistein, un mostro a più teste senza vita. Succhiata dalla voce insistente dell’adulto che fa domande le quali quasi sempre contengono già le risposte che bambine e bambini si limitano a confermare, a completare. Non vi è traccia di racconto e di rispetto per il racconto autentico altrui. Nessuna.  Se non quella che con le unghie e con i denti gli intervistati con coraggio cercano di formulare, in quei pochi tentativi di parola bambina che spicca il volo, per poi riatterrare drammaticamente sul comodo tappeto drammaturgico (si fa per dire) confezionato dall’autore.  E questo fa rabbia.
 Molte storie perlomeno interessanti si celano dietro i volti e la narrazione compressa di bambine e bambini che incontriamo, nonostante un evidente stato di stress che trapela dal sudore sopra le labbra degli intervistati.  È una certezza il fatto che in tali condizioni non vi possa essere un’ accoglienza alla libertà della parola di farsi racconto naturale. Con una sensibilità diversa, sarebbe bastato seguire, documentare, attendere anche una sola delle storie che come una vera e propria sfilata, descrivono e illustrano la collezione dell’ autore.
In due momenti però questa insofferenza si acuisce.  
Per circa due minuti, in una sola sequenza, senza che il ragazzino torni in altri momenti del film, un piccolo profugo sbarcato a Lampedusa, risponde all’unica domanda che Veltroni gli rivolge (almeno nel montato condiviso con noi): “Come è stato il viaggio?”. Il bambino risponde, ma si capisce che è a disagio, che non vuole… proprio non vuole. E nessuno di noi al suo posto. Ma quello che vediamo e sentiamo è proprio questo ossimoro. Questa orribile forzatura, questo dialogo mancato.
  L’altra constatazione è rispetto ad un ‘etica sottintesa che non ci sentiamo di condividere.  Tra i vari capitoli in cui sono inserite le conversazioni di Veltroni con Veltroni (tramite gli infantes), ve ne è uno dedicato all’ omosessualità dove bambine e bambini sono chiamati a rispondere su questa annosa questione, se per loro rappresenti un problema o un fatto naturale. Molti rispondono come fossero “gente”, da italiani medi, da quel che “conviene” rispondere pubblicamente, di fronte all’ italiano medio che te lo chiede, davanti ad una telecamera italiana media.  Solo una bambina, fuori dal coro, prova a raccontare il suo trovarsi a proprio agio con le sue due mamme, che da sempre è così, che per lei questa è la realtà e non l’imbarazzo dei suoi compagni.  
Vengo preso da amarezza e sconforto. Nel 2015, in mezzo ad un fermento culturale così acceso e denso sull’ educazione di genere, possibile  che un intellettuale, un ex sindaco che ha incontrato e conosciuto la sua comunità, abbia dovuto trattare  e far trattare l’ omosessualità  ancora come una questione a parte,  fuori dall’ idea di famiglia e fuori dall’ idea di amore, (ossia i capitoli precedenti)? Poi mi rispondo che in fondo è la stessa infanzia ad essere stata considerata in questo modo dal suo autore, fuori dal mondo, fuori dai mondi possibili e impossibili… solo dentro Veltroni.
Matteo Frasca


1 commento:

  1. Mi piace questo intervento di Matteo Frasca; se non altro per la chiarezza espositiva "ma anche" (veltronismo involontario) perché la critica non è a Walter Veltroni ma ad un certo modo d'intendere, di documentare e di rappresentare la verità da parte di gran parte di operatori e mediatori culturali, educativi, politici, intellettuali e pseudo-intellettuali.
    Quando si parla e si scrive di bambini, si parla e si scrive di verità e, se dietro alla verità si intravedono "altre verità", queste ai fini veritativi, sono considerate menzogne, nascondenti, doppi fini, ecc.
    Un operazione culturale e/o artistica, pedagogica, educativa, ecc. che presenta molteplici "verità" risulta oggettivamente confusa, senza identità, senza verità; la fruizione di opera che di tali caratteristiche, (come sembra essere "I bambini sanno" di Veltroni) può avere esiti deleteri proprio per quei bambini che sono il tesoro, il futuro e la speranza di un'umanità calpestata dagli eventi, obnubilata dai media e dimenticata dei giorni nostri.
    C'è un aspetto positivo nell'opera di Veltroni: "l'effetto elastico"; ovvero il merito di aver risvegliato le coscienze sopite di quanti lavorano concretamente per un mondo migliore e che trovano nell'educazione la strada maestra della speranza per un futuro umanamente sostenibile.

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